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denti. Non stimiamo minimamente offendere la religione usando di tal linguaggio, poichè essa non fu mai tanto gloriosa quanto nei tempi in cui il romano pontefice altro non era che il primo pastore del cristianesimo, senz' ombra di terrena sovranità. E dall'aggiunzione del dominio temporale alla potestà delle chiavi, riconosce l'Italia l'origine di quella miseranda serie di sciagure, che Pipino e Carlo Magno, chiamati dai papi, le addussero in copia, e che da quindi in poi è costretta sopportare. Troviamo da diversi scrittori lodato, fra i quali avvi Carlo Botta, un piano di lega italica formato da un cardinale Orsini, e ben s'intende col papa alla testa. E noi che con essi abbiamo pari il sentimento di simile unione, non possiamo però convenire nella seconda parte del progetto, che avrebbe indubitatamente arrestata e sovvertita ogni buona ordinanza civile in tutta la penisola, conforme è sempre accaduto ed accade nello stato soggetto ma non governato dal pontefice. Chi ne avesse dubbio non ha che recarsi a visitare quelle provincie per rimanerne convinto. Ed agli sforzi fatti nelle due Sicilie, in Toscana ed in Lombardia per infievolire tanta cagione di mali nazionali, cooperarono validamente le repubbliche di Venezia e di Genova, i re Sabaudi e gli altri minori principi; dimodochè l'azione era molto inoltrata, allorquando i casi di Francia ne trattennero il corso.

Teneva lo scettro in Torino il re VittorioAmedeo III, principe sopra a tutto curante dell'esercito, nel quale aveva riposte le sue più vive affezioni, come i popoli erano ad esso affezionatissimi

per ereditaria riverenza, non mai interrotta da mancamenti delle parti. La postura degli stati di Casa di Savoia a cavaliere delle Alpi, con Francia da una parte ed Austria dall'altra, rendevano e rendono necessario in Piemonte un nerbo di milizie ognora preste agli eventi contingibili. Quell' essere sempre aperto l'adito agli Austriaci di calarsi ed ingrossare nelle pianure che si distendono fra il Ticino, l'Adige ed il Po, riusciva assai molesto a Vittorio-Amedeo, che ambiva congiungere i suoi dominii al territorio veneto. In tal caso le sorti italiane avrebbero sicuramente preso ben altra piega; avvegnachè i passi atti alle discese degli stranieri fossero tutti in mano degli stessi nativi, e difesi da braccia nazionali. La monarchia piemontese forte e salda per sua naturale costituzione, e la repubblica di Venezia, ferma negli antichi ordini, se collegate in riva all'Adige, potevano opporre valida resistenza nei casi di tentate invasioni. Ma quell'andare e venire dei Tedeschi fino al Po secondo il piacimento loro, era cosa pericolosa e compromittente per tutta la nazione. Poichè chi occupa una stanza in casa altrui, riesce facilmente ad introdursi in tutte le camere, ed a dare soggezione ai padroni legittimi. Quindi, riguardata la cosa sotto questo aspetto, anche i benefizi arrecati da Giuseppe e Leopoldo alle faccende civili spariscono, essendochè non alla sola Lombardia, ma al Modenese ed alla Toscana potessero facilmente dilatarsi i Tedeschi, siccome paesi appartenenti a principi del medesimo sangue. Da ciò ne è più volte proceduto, che è stata trasportata la guerra nei nostri campi per cause affatto estranee

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all'Italia, e che il Piemonte ha sofferte le disastrose conseguenze di essere il guardiano della comune patria in mezzo a grandi potenze rivali. Il re VittorioAmedeo peraltro, se aveva curato l'esercito in quanto alla disciplina, non ne scrutinò la difettosa organizzazione, nè attese quanto occorreva alle bisogne civili. Imperocchè, prima le idee sollevate da Francia, e poi le armi dei repubblicani, scossero la monarchia dalle fondamenta.

La lunga pace aveva ammolliti gli animi dei Veneziani, sicuri, e forse troppo fidenti nei loro savissimi ordini politici. Il senno più che le armi giovò sovente alla salute della veneranda Repubblica; se non che i tempi ora esigevano e senno ed armi per opporsi all' impeto d'avvenimenti di nuova tempra, rotti ad ogni maggiore sfrenatezza e contradizione. Di due errori era incolpabile la Repubblica, vale a dire, della sua troppo stretta oligarchia, e della fierezza inquisitoria. In quanto al primo punto è da riflettere, che non poteva esser toccato senza far cadere il governo, il quale aveva molte parti buone, e riscuoteva fama di grandissima saviezza in Europa. Rispetto al tribunale dei tre è da aversi in considerazione esser disceso dai trascorsi secoli, in cui simile inquisizione politica era propria di tutti i comuni e governi italiani. I capitani di parte guelfa in Firenze, per esempio, corrispondevano precisamente ai tre di Venezia, dei quali ora non rimaneva che il temuto nome, di molta salute però alla città regina dell'Adria. Profittarono i moderni storici francesi, seguitati da alcuni superficiali o illusi scrittori italiani

di certi fatti dell' Inquisizione di Stato per imprecare all' estinta Repubblica, e per trarne argomento giustificante la sua deplorabile fine. Vedano però gl'Italiani qual differenza passa fra i piombi di Venezia ed il carcere duro di Spielberg: confrontino le vittime antiche colle moderne, e poi decidano se le scagliate invettive contro Venezia siano meritate e doverose. Ed ai Francesi diremo, che quel loro affaticarsi a rimestare ed esaltare il procedimento segreto e crudo del tribunale inquisitorio, piuttosto diretto a frenare l'ambizione de' patrizi che a tiranneggiare i popoli, giammai arriverà a scusare il gravissimo torto del Direttorio e di Buonaparte repubblicani, che presero ad abbattere la più vetusta, nobile ed innocente delle repubbliche. Alle remote generazioni ne andrà certamente l'onta, ed esse col vitupero, faranno le vendette di cotanta abominevole e riprensibile azione. Ben vero è, che la prudenza del Senato negli ultimi tempi assai difettò, non apprestando le armi per farsi rispettare nel caso che i Francesi dalle minaccie avanzassero ai fatti coll' Austria, circostanza che avrebbe facilmente avvicinata la guerra a' suoi confini, siccome accadde. Laonde, per improntitudine di Francia, nelle lacune venete mandò l'estremo gemito l'ultimo residuo della libertà latina, ivi annidata e superba per quindici secoli circa, e Buonaparte italiano ne celebrava i funerali.

I destini dei tempi, osserva il Botta, correvano troppo avversi alla misera Italia per non dar luogo ai Liguri di mostrare qualche saggio delle loro non infiacchite virtù. D'animo forte, di mente per

spicace ed acuta, amatori appassionati della propria indipendenza, attivi, civili ma non molli, perseveranti e prudentissimi si mantennero i Genovesi, qualità che avrebbero potuto produrre eccellenti resultati, almeno per l'onore nazionale, se la fraude non avesse informate le imprese di Francia repubblicana ed imperiale. Ma le parole sempre diverse dall' opre nelle galliche genti, prima colle astuzie e poi colla forza trassero in precipizio l'onoranda Liguria, che adesso è fatta partecipe della gloria di chi rappresenta i più vitali interessi e la dignità d'Italia. Lucca, Parma e Modena possedevano troppo piccoli stati per poter figurare sul teatro delle vicende che s'andava ad aprire; e quantunque i respettivi governi avessero fatti dei passi per assecondare il movimento incivilitore del secolo, nullameno erano rimasti così addietro da dover risentire il contraccolpo delle idee proclamate dalla Francia. Lo stato pontificio rimaneva l'ultimo, guidato più dal caso e dall' arbitrio dei prelati, che dalle leggi e dal senno civile e politico. Da quindici anni circa teneva la Sedia Apostolica Pio VI, che già molte cose racconciate dall'ottimo predecessore aveva guaste nuovamente. La mansuetudine, la semplicità ed austerità di costumi e di dottrine professate dal buon Ganganelli, erano scomparse, sebbene fossero i soli mezzi adattati per restituire alla tiara la venerazione a troppi venuta meno. Avrebbe voluto papa Braschi allargare dominio ed autorità, ma in fine dovette perdere l'uno e l'altra, per quel fatale allucinamento che sorprende molti di coloro i quali credono rafforzare il vacillante potere

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