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separato. Se l'Europa avesse proposto il nome di un principe, i capi dei governi dell'Emilia e dell'Etruria avrebbero aggiunto quel nome alla seconda parte del quesito. Il dilemma fu chiaramente e lealmente enunciato: la risposta fu lampante di evidenza e meravigliosa per lo slancio, per la spontaneità, per l'unanimità. Nessuno voleva stampare e distribuire le schede con la formola Regno separato: i governi sopperirono a questa mancanza. In Toscana non c'era la libertà di stampa: fu conceduta subito, affinchè tutti i partiti avessero agio e facoltà di esprimere il loro parere e di fare la loro propaganda. Non vi fu nemmeno l'ombra: nemmeno l'apparenza di qualsiasi pressione. Il solo atto di violenza fu commesso da alcuni contadini del Chianti, ma non a favore della causa dell'unione, bensì in senso opposto e chi erano quei contadini? erano proprio quelli del barone Ricasoli! Nei giorni 11 e 12 marzo la questione fu decisa: parlò il suffragio popolare, ed il suo pronunciato vinse ogni speranza. Accorsero in gran folla i cittadini a deporre la loro scheda : su quattro milioni di abitanti parteciparono alla votazione oltre ad 800,000, e su questi non sappiamo se il numero di coloro che parteggiarono per il regno separato eccedesse i 20,000! La votazione fu liberissima, spontanea, solenne, imponente davvero. Il trionfo del principio nazionale non poteva essere più splendido. Erano presenti a Bologna ed a Firenze alcuni stranieri, e rimasero ammirati per tanta regolarità, per tanta dignità, per tanto slancio. Non era una turba di faziosi, non un'accolta di settarii, ma bensì una intiera popolazione, che, mossa dal ragionevole desiderio di assicurare le proprie sorti, e di togliere all'Europa ogni ragione di essere malcontenta dell'Italia, accorreva a dire, o per meglio esprimerci, a ripetere solennemente, per l'ultima volta, che voleva essere collocata sotto lo scettro costituzionale del solo principe che non mancò alla fede data, e che fece suoi i dolori e le speranze d'Italia. 11 e 12 marzo 1860! date non più dimenticabili in quei due giorni fu fatta l'Italia, e quel che più vale fu fatta dagli Italiani. Non crediamo esagerare, ma ci pare di non dilungarci menomamente dal vero affermando che di esempii simili la storia non porge riscontro e noi Italiani del 1860 possiamo menare il giusto vanto di lasciare ai nostri posteri una eredità gloriosa di costanza inflessibile, di sapienza perseverante. L'Italia c'è: l'abbiamo fatta noi. Dopo il principe, a cui più che mai si rivolge ora la gratitudine di tutti, le popolazioni italiane debbono sperimentare un sentimento di gratitudine profonda verso il conte Camillo di Cavour, il barone Bettino Ricasoli ed il cavaliere Luigi Carlo Farini. Si dice che non ci siano uomini necessarii: e sia pure: ma la Provvidenza tiene in serbo gli uomini per le occasioni, e questa volta i tre uomini, di cui testè abbiamo rammentato il nome, sono stati veramente provvidenziali. Il loro patriotismo non ha conosciuto ostacoli: la loro abnegazione non ha avuto limiti : la loro preveggenza ha antivenute le difficoltà. Il conte di Cavour additò I'Italia all'Europa, e fece questa persuasa che l'Italia debole e divisa era un pericolo, laddove l'Italia forte ed unita è forza preziosa per tutta la civiltà. A lui è dovuta quella benedetta alleanza che ci ha fruttato il potente aiuto della Francia valorosissima. Ci trovò a Novara, ci condusse a Solferino: ci trovò a Zurigo, ci ha condotti all'Adriatico e sull'Arno. Il barone Bettino Ricasoli, ravvivando l'an

tica sapienza nazionale dell'Alighieri e del Machiavello, avvalorò nell'animo dei Toscani la persuasione che oggi le autonomie parziali sono sinonimo di anarchia e di soggezione, e che pace e sicurtà si trovano soltanto nel seno di una grande nazione. È la Toscana fu con lui, e gli affidò l'invidiabile mandato di dire a Vittorio Emanuele Sono tua. Luigi Carlo Farini, che nel 1848 e 1849 aveva fatto lealmente ogni opera per salvare gli ordini costituzionali nello Stato Romano, seppe creare l'entusiasmo per la disciplina in un paese che il mal governo dei preti aveva educato all'assassinio ed al culto della forza brutale, e per lui oggi due milioni di Italiani, concordi, risoluti, pieni di fede, sono venuti ad ingrossare la nostra famiglia. Ma a che tessere le lodi di cosiffatti uomini? il maggiore elogio stà nei loro nomi: vivono nella riconoscenza nazionale, vivranno onorati e gloriosi nei fasti delle patrie istorie, e nei ricordi di questo portentoso rinnovamento della italiana nazione.

Nei giorni 18 e 22 marzo il re Vittorio ed il suo governo compivano l'opera così splendidamente iniziata e prosperamente avviata dalle popolazioni. I voti dell'Italia centrale erano stati accettati anticipatamente: furono per l'annessione: l'annessione oramai è un fatto irrevocabile. Come ha detto il Re, è un patto di onore e lega indissolubilmente le due parti.

Nè si può supporre che l'Europa sia per non riconoscere l'ordine di cose liberamente voluto dagli Italiani e francamente accettato dal re Vittorio Emanuele. Passarono i tempi, in cui delle nazioni si disponeva come delle greggi, e i potenti se le spartivano fra di loro, e degnavano alcuna volta assegnare qualche particella anche ai piccini. Siamo nel 1860, e non più, la Dio mercè, nel 1815. Le spade della Francia e dell'Italia lacerarono i trattati stipulati in quell'anno, e le popolazioni di Parma, di Modena, delle Legazioni e della Toscana non hanno permesso che l'opera gloriosamente compita dalla guerra venisse distrutta dalla pace. Per disfare l'unione, per separare di bel nuovo popoli che ad ogni patto vogliono stare assieme perchè sanno che formano una sola famiglia, l'Europa non potrebbe adoperare che un sol mezzo: la forza. Potrà e vorrà adoperarla? rispondiamo risolutamente che no: non potrà, perchè il regno della forza non è eterno, e i suoi trionfi sarebbero sempre brevi e fugaci: non vorrà, perchè volendo il fine è d'uopo volere i mezzi, e l'Europa volendo l'ordine, la stabilità, la pace, l'equilibrio non vorrà di certo commettere un atto così enorme e così contrario ai suoi desiderii ed ai suoi interessi, come sarebbe quello di usare violenza a popolazioni che null'altro domandano fuorchè essere lasciate signore di se medesime ed arbitre dei proprii destini. Il vieto principio dell'empiamente detto diritto divino è morto e sepolto per sempre: nè le stesse baionette avranno più facoltà di farlo risorgere. Il dilemma è chiaro: si vuole la pace e l'ordine? non toccate l'Italia, rispettate ciò che hanno voluto e fatto le popolazioni. Si vuole l'anarchia e lo sconvolgimento universale? intervenite con la forza. Basta enunciare questo dilemma per inferirne che all'epoca in cui viviamo la seconda parte è assolutamente impraticabile ed impossibile. L'Italia nostra, col suo mirabile contegno, ha condannato l'ingiustizia all'impotenza e la violenza alla sterilità. L'Italia c'è: non la disfarà nessuno. Avvi forse qualcuno che possa pigliare al serio le velleità bellicose della

corte di Napoli? a noi póco monta indagare che cosa intenda e pensi fare quel malefico e spregevolissimo governo: se esso mira ad emulare gli allori dell'eroe di Cervantes non potrà nemmeno cavarsi questo capriccio, perchè la prima avventura che tenterebbe sarebbe l'ultima. Se non destasse nausea e ribrezzo ad ogni onest'uomo, quel governo non sarebbe altra cosa se non sovranamente ridicolo. Figuratevi se vuol far paura all'Italia! il Giosuè che possa fermare il cammino dell'italico sole non è nato ancora; ad ogni modo non potrebbe essere, non sarà mai un governo che ha ereditato la ferocia e l'immanità da quello che lo ha preceduto, non l'intelletto. Sarà forse l'Austria che potrà nuocerci? la risposta a questo dubbio è nel famoso motto: l'Austria si raccoglie. Lasciamo dunque che essa si raccolga, ed intanto pensiamo noi a' casi nostri, affinchè se un giorno o l'altro quel raccoglimento avesse a cessare ci trovassimo pronti a tutelare la nostra dignità e la nostra indipendenza. Alle altre primarie potenze di Europa non vogliamo fare l'ingiuria di discutere, nemmeno per via di ipotesi, la eventualità di un loro intervento a danno dell'Italia. Sarà dunque la corte di Roma che, turbando le coscienze e usando i fulmini spirituali a servizio de' suoi interessi temporali e mondani, potrebbe far correre pericoli alla causa italiana? il contegno di tanta parte del sacerdozio italiano ha dovuto già avvertire il Vaticano che certe armi non si addicono più al secolo nostro, che esse sono spuntate, e che adoperandole non si nuocerebbe se non ai veri interessi della Religione. Dichiarerà forse la curia romana che l'integrità degli Stati temporali del pontefice sia domma, ovvero articolo di fede? ma allora saranno posti al bando della cattolicità tutti quei rispettabili sacerdoti, e sono, la Dio mercè, moltissimi, che hanno guidato i contadini a deporre la scheda favorevole all'annessione, e che si sono associati con amore e slancio a tutte le gioie delle popolazioni, a tutte le solennità della nazione. La spada spirituale usata a tutela di interessi mondani ferirebbe chi l'adoperasse e non coloro a cui danno si avesse l'intenzione di adoperarla. Noi lo diciamo francamente: se ciò avvenisse, ne saremmo profondamente afflitti, poichè il decoro della Religione ci scapiterebbe. Ben sappiamo che i fautori delle pretensioni romane si vendicano de' loro avversarii, accusandoli di eresia e di empietà: ma noi non possiamo concedere a nessuno il diritto di rivocare in dubbio la sincerità della nostra fede, ed abbiamo l'intimo convincimento che la confusione delle due potestà in una sola è anzitutto essenzialmente ed intrinsecamente perniciosa alla Religione: i cui sacri interessi saranno continuamente in pericolo finchè il pontefice non cessi dallo impugnare lo scettro con quella mano che Iddio ha destinato a benedire, finchè le sorti di Bologna e delle Romagne non siano divise dalle altre popolazioni dello Stato Romano. La dominazione temporale è carco gravoso alla navicella di Pietro, la quale entrerà sicura e gloriosa nel porto di salvazione sol quando sarà liberata da quel carco. Ordinandosi a Stato forte gli Italiani si rendono benemeriti della civiltà, a cui assicurano gagliarda difesa; dell'Europa, a cui guarentiscono pace stabile e fruttifera della Religione, di cui rialzano lo splendore: del pontificato, la cui maestà non sarà mai tanto veneranda come quando sull'augusto capo del pastore non poserà più la fragile corona di principe di questa terra.

Frattanto il governo del re Vittorio Emanuele, fedele a' suoi antecedenti ed a' suoi impegni, prosegue a battere la sua via confortato dal plauso della nazione. Il trattato con cui la Savoia e Nizza sono cedute alla Francia si connette direttamente con l'assestamento delle cose italiane, e noi siam persuasi che il governo dirà al Parlamento i motivi che lo hanno consigliato ad una risoluzione di tanta entità.

Le elezioni dei deputati testè compite in tutte le province unite hanno procacciato un altro imponente trionfo alla politica nazionale. Ora il Parlamento sta per radunarsi. Esso raccoglie a nome della nazione la gloriosa eredità di senno, di sagrifizio, di preveggenza, di fermezza, di patriotismo tramandata da quel Parlamento piemontese, che per un decennio fu speranza di quell'avvenire che oggi è luminosa realità ed esempio non più dimenticabile di quelle civili virtù che hanno fatta l'Italia. Il Parlamento piemontese scese nella tomba il giorno 26 aprile 1859: risorgerà il giorno 2 aprile 1860 Parlamento italiano.

Torino, 31 marzo 1860

GIUSEPPE MASSARI.

Guglielmo Stefani Direttore gerente.

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Le nuove leggi: -I. Legge sull'ordinamento giudiziario, di A. Pi-
sanelli.-II Legge sulla pubblica istruzione, di A. Ciccone
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Cronaca industriale, agricola e commerciale, di M. Manucci
Rassegna politica, di G. Massari

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Febbraio

Progetto d'ordinamento delle scuole primarie e secondarie in To-
scana, di Cesare Cantù

Artisti contemporanei: il pittore Giovanni Denin, di Un Veneto
Di Eugenio Rendu e de' suoi scritti riguardanti l'Italia (continua-
zione) di Jacopo Bernardi

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